Novecento

And the ocean loved her back by AlexandraSophie@DeviantArt

And the ocean loved her back
by AlexandraSophie@DeviantArt

Questo breve racconto non mi è “capitato fra le mani”, come spesso si sente dire a proposito di Novecento. Lo sono andato a cercare. Le maniche rimboccate, aggrappato con una mano alla scala della libreria e l’altra mano protesa a scorrere i volumi, ragno a cinque dita su una tela di titoli e parole. Ero sicuro di averlo, un po’ meno di averlo già letto. E quando l’ho rivisto, la copertina dell’edizione economica Feltrinelli, la mente è tornata in un sol balzo a tutta una serie di emozioni, vecchie mosche prese in questa piccola tela di Baricco. Avevo già letto questo testo, ma troppi anni fa. A volte arriviamo troppo presto, giungiamo in anticipo, rispetto a un libro. Dopo un’ora il nostro incontro poteva dirsi esaurito. Lo scambio, questa volta, era avvenuto in sincronia.

Scrivere di questo testo è molto difficile. O forse è difficile per me, dato che mi ostino a volerne portare a galla il livello che ritengo più profondo. Tanto difficile da tenere nel mirino che non sono sicuro nemmeno di saper tracciare un confine fra l’intuizione e il vaneggiamento. Rischio di sparare cazzate, forse; vado a naso, convinto a proseguire su una traccia che avverto svolgersi lungo tutto l’arco di questo romanzo.

Danny Boodman T.D. Lemon Novecento viene messo da Baricco in una situazione scomoda. E’ l’obiettivo ideale per ogni sorta di attacco da parte dell’uomo moderno (egomaniaco, iperattivo nell’inconcludenza, moralmente imperialista) : la sua immobilità è facilmente scambiata per codardia, il suo silenzio per debolezza, le sue scelte considerate bizzarrie insensate. Eppure resiste. Resta fermo lì, per tutto il racconto, fisso al centro di se stesso come un muto scoglio di pietra ben piantato nel fondale limaccioso del mare, inamovibile persino dalle tempeste più violente. Noto una certa identità fra Novecento e la nave che lo ospita per tutta l’esistenza, dalla quale non scenderà mai. E questo pare ribadire il concetto di fermezza e risolutezza del protagonista, egli “è” la nave che non abbandonerà mai. Si rafforza così il senso di un’integrità, ben delineata, che rappresenta un costante contrasto con l’immensità informe delle masse oceaniche. Novecento è una nave, è un individuo, alle prese con le moltitudini della vita, onda dopo onda sospinte dai venti e dalle correnti del tempo. E’ isolato nell’oceano, ma ne è inseparabile e compartecipe. Come ognuno di noi.

Il suo coraggio sta nella scelta. Egli sceglie se stesso, lo fa rinunciando all’indeterminatezza degli innumerevoli particolari che compongono la realtà. Decide di non perdersi nel labirinto delle esplorazioni umane, ma si rende comunque permeabile alle realtà a lui narrate dai viaggiatori della sua stessa nave. Conosce per sentito dire e ciò gli basta per saziare, esaurire, ogni capitolo dello scibile. Questo personaggio non ha nulla di speciale, eppure proprio così appare, in virtù della sua limitatezza spensierata e della pacifica, serena ordinarietà di cui fa sfoggio a mento alto. Certo, è un mago del pianoforte, ma noi tutti siamo maghi in qualcosa, anche meno sensazionale. Questo è un particolare per rendere il racconto un po’ più romantico, più teatrale…

Qualcosa scatta, quando si legge Novecento. Un tumulto sommerso si agita in noi, ci scompone. Ci turba. Credo sia doveroso, a questo punto, allargare il campo visivo con il quale si guarda a questo testo: come sovente accade, un’opera, d’improvviso, cessa di essere quell’opera, per diventare un’altra cosa. Accade per esempio nell’impressionismo, prendete Monet. Sono le irregolarità a definire precise emozioni di spaesamento e meraviglia. Sono miopia, diplopia, confusione luminosa, a delineare, anziché sfocare. Perché? Semplice. Perché Monet non ha creato qualcosa cui noi reagiamo con un’emozione, ma ha richiamato un’emozione che ci fa reagire. Un’emozione nostra, già presente in noi. Forse ancora avvolta nel cellophane. Ma già nostra.

E Baricco fa leva su questa emozione condivisa da noi tutti, la intercetta, laggiù in mezzo all’oceano, la prende al volo e ce la mostra: è il coraggio di vivere secondo se stessi. Ci viene mostrato un individuo capace di essere tale, un giovane uomo che fronteggia il senso di nulla, di vuoto, che può creare l’infinito oceanico. Non vi è spaesamento in lui, nossignore, bensì fermezza, ancora fermezza e fermezza. L’integrità che Hemingway decantava tanto! Eccola qua, fotografata in poche pagine, quasi inosservabile. La monotonia del suo viaggio, ossessivamente ripetitivo, america/europa, è la caricatura iperbolica della monotonia delle vite normali: l’esistenza è sterminata eppure viaggiamo lungo una sola strada, un solo binario. La vastità dell’esistenza è un inganno se la si ricerca al di fuori di sé, diviene un mero problema di scala: a qualsiasi livello sopraggiungono insoddisfazione e desiderio di novità. Nel tragitto in auto per l’ufficio o in mezzo all’oceano, da un continente all’altro, ovunque e sempre.

L’infinito si compie dentro di noi, può esser racchiuso in un pensiero, liquidato con una scrollata di spalle o contemplato in silenzio. “Ciò che non ha fine” è nostra diretta pertinenza, è nostra giurisdizione. Non è nelle cose, è nelle persone, è una sensazione collettiva, un tratto genomico dello spirito, comune a tutti. E’ l’effetto di questa sensazione su ognuno di noi, a rendere inusufruibile il concetto di infinito, a renderlo inafferrabile e spaventoso. Troppe reazioni differenti a una condizione irrinunciabile dell’umano; ci si perde nella folla, non si riconosce più la propria strada. Tutto appare relativo oltre misura, ci schiaccia un vuoto insostenibile.
Anneghiamo nell’oceano, noi che oceano siamo.
Novecento no, lui navigherà ancora.

Novecento, Alessandro Baricco, 1994
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L’immoralista

<<Quelli che narrerò in stretta successione sono due testi francesi a cavallo fra ‘800 e ‘900. Intravedo un sottile filo rosso fra loro e mi sembrano fornire un buon taglio, commestibile e ben digeribile, di morale dell’epoca. Non so cosa abbia dato il via a questo improvvisato excursus nella società francese di oltre un secolo fa, ma so qual è il limite, che io stesso mi sono imposto: una bottiglia di Bonarda per ciascun testo. Accomodatevi.>>

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Indifference
by someonesaid@DeviantArt

Le opere di metamorfosi contengono quasi sempre un messaggio – forse mai come in questo caso sarebbe opportuno dire una morale – incarnata nel protagonista. Qualcuno fa, o non fa, qualcosa e viene trasformato in qualcosa d’altro, perché sì! Spesso è la beffa a sottolineare la gravità della metamorfosi, vi è una sorta di nemesi. A pagarne le spese il centro, l’obiettivo, il protagonista, che diviene avvertimento per tutti. Questo ci rende le metamorfosi più assimilabili e giustificate, alla fine salta fuori che Tizio e Caio se la sono davvero meritata questa nuova forma, o comunque ci sono andati vicino… La morale è ben evidente, viva e vegeta. Penso ad Ovidio.

André Gide impasta autobiografia, costume dell’epoca e finzione, attorno alla figura del protagonista di questo romanzo, ma calpestando la morale – appunto immoralmente – poiché saranno le persone attorno a lui a soffrirne i disgraziati esiti. Soprattutto colei che, a rigor di logica sociale, dovrebbe essere a lui più cara, ossia la moglie. Michel se la cava benissimo, tutto di guadagnato! Appare cattivo, appare indifferente e cinico, egoista, forte e autonomo. Appare molto più contemporaneo che a cavallo fra ‘800 e ‘900…Ma Michel non è sempre stato così. Indietro di due passi…

…e iniziamo dalla prima pagina. Questo romanzo narra un pretestuoso viaggio concreto, attraverso deserti, mari e città – dalla salute alla malattia, e dalla malattia di nuovo alla salute – per portarci a conoscenza di un altro viaggio, astratto e ben più affascinante e misterioso.
La narrazione assume i toni d’una trasognata confessione di un individuo che, aprendosi al lettore, avverte via via la mancanza di colpa nelle sue azioni e l’inutilità della confessione in atto. E questa diviene – altra metamorfosi – una riflessione, elegante e sobria, che non dà pretesti per reazioni pulsorie tipiche della provocazione mordace.
Il piccolo uomo, dalla salute instabile e dalla psiche labile, che prende parola a inizio romanzo è religiosamente innamorato della moglie che non riesce ad amare umanamente; sulle prime non si capisce bene perché l’abbia sposata, come non lo si capisce tutt’oggi nella stragrande maggioranza dei casi, ma qualche indizio volutamente lasciato ai nostri occhi ci suggerisce che un motivo ci sia. La ragione di questo affiancamento forzato non si esaurisce con la volontà di nascondere un’omosessualità tanto conclamata in Michel quanto inespressa al resto del mondo (guarda Michel che tua moglie l’ha già capito!), ma nell’obbedienza ai canoni morali della società, che riconosce solo ciò che afferma e distrugge tutto ciò che non riconosce. Se tu, uomo d’inizio novecento, non sei sposato a una donna, o sei un prete o sei da sommergere di un sospetto così acre da far pensare all’odio.

Saltate circa 130 pagine e vi sembrerà di leggere le parole di un altro uomo. Sì, perché il Michel finale, il prodotto della metamorfosi, è esattamente come descritto prima. Un indissolubile, turgido e sfavillante stronzo! Uno che sta da dio. Eppure, uno stronzo senza compiacimento, piuttosto stupito che imbarazzato, uno stronzo quasi dolce, uno stronzo simpatico. Se ne resta lì, con le braccia penzoloni e i palmi rivolti verso di noi, le spalle un po’ incassate, come a dire: “non so di preciso cos’è successo, non so nemmeno se essere dispiaciuto o felice…”. Ma che sarà successo?

In quelle 130 pagine è successo ciò che a volte impiega anni ed anni ad accadere, ciò che in molti individui non accade mai, purtroppo. La rottura netta e irreparabile fra individuo e morale, fra ego e società, fra istinto e galateo.
Il controllo esterno, generato dai meccanismi sociali dei costumi, delle tradizioni, della politica e delle filosofie, della religione e dell’urbanistica, dell’educazione e del decoro; questo controllo così sfaccettato eppure monolitico, salta. Fa un casino tremendo, un’esplosione di umanità incorrotta e selvaggia, eppure autentica, genuina e irripetibile. Una fragorosa detonazione che dura un istante e non viene udita da nessuno, ma che marca indelebilmente il passaggio da una forma primitiva a una forma fino ad allora impensabile. Una gabbia di acciaio che evapora come un sogno al mattino.

In tutta questa cosa bella che sto descrivendo, chi viene distrutto è Marceline, la mogliettina fedele, devota e mogia mogia. Proprio un’ingiustizia, un’immoralità bella e buona, sbattuta in faccia al lettore come prova di un’avvenuta metamorfosi, una radicale e cieca metamorfosi.
Marceline accetta la propria condizione di “oggetto” d’amore, di soprammobile di rappresentanza, accudendo fino alla morte Michel, che muore nella sua forma debole per rinascere forte e spazientito dalla moglie.
L’immoralista guarda a Marceline come a una testimonianza di una vita ormai defunta, abbandonata. Rappresenta per lui una vergogna, un imbarazzo, l’eco di un passato di sofferenze e costrizioni. Michel la trascina, sebbene ella s’ammali di tubercolosi, in una sorta di nostos del proprio animo, un percorso che non può affrontare e che la consumerà fino alla morte. E con la sopraggiunta fine di Marceline si afferma l’inizio di Michel.

Il cuneo fra forma passata e forma futura del protagonista – l’ago della bilancia che fa pendere Michel verso l’individualismo più assoluto – è impersonificato da un altro omosessuale, presentato nel libro come soggetto elusivo e ciononostante incisivo. Menalque, l’apologeta dell’individualità.
Cerco sempre di evitare citazioni, ma queste sue frasi rivolte a Michel dovete leggerle, perché non possono essere parafrasate, affondando il loro senso nel vuoto di parole che costituisce il centro di ogni persona:

[…] il possedere qualcosa incoraggia al riposo e nella sicurezza ci si addormenta; mi piace abbastanza vivere per pretendere di vivere sveglio e, anche in mezzo alle mie ricchezze, mantengo questa sensazione di precarietà con la quale esaspero, o almeno esalto la mia vita […] mi piace una vita di rischi e voglio che essa esiga da me, ad ogni istante, tutto il mio coraggio, tutta la mia felicità e tutta la mia salute.”

[…] dei mille modi possibili di vita, ognuno di noi può conoscerne uno soltanto. Invidiare la felicità altrui è pazzia: non si saprebbe che farsene. La felicità non si può averla già bell’e fatta, ma su misura.”

“Creo la novità di ogni ora dimenticando completamente il momento precedente. Non mi basta mai l’esser stato felice. Non credo alle cose morte e per me il non essere più è come il non essere mai stato.”

“I ricordi più delicati appassiscono, i più voluttuosi marciscono, i più incantevoli sono i più pericolosi per il futuro. Ciò di cui ci si pente, un tempo era delizioso.”

“Ah! Michel, ogni nuova gioia ci attende, ma vuole trovare il nido vuoto, essere l’unica, e che si arrivi a lei senza altra compagnia.”

“[,,,] i più pensano di poter ottenere qualcosa di buono da se stessi solo con la costrizione; si accettano solo contraffatti. Ognuno desidera assomigliare il meno possibile a se stesso; ognuno si costruisce un modello, poi lo imita; accetta addirittura un modello già scelto […] hanno paura di essere soli e così non si trovano mai. Io disprezzo questa agorafobia morale…”

Con agorafobia morale, Gide immortala quel fenomeno alla base di moltissime coppie infelici. Michel lo ascolta, eccome. E ciò che in lui era un tentativo, ora ha trovato le parole per divenire un successo.

E una volta libero? André Gide dà prova di abissale intelligenza esistenziale, affermando che nonostante questa liberazione appaia ardua e per pochi eletti, “sapersi liberare non è niente, il difficile è saper essere libero.” Ecco che la metamorfosi non ci appare più così netta, ma questa nuova forma dell’essere è soltanto una delle sue infinite declinazioni, e che forse inizia proprio ora la parte difficile.

Ma il romanzo si ferma alle porte di questa considerazione, come ogni buona provocazione, non si occupa delle conseguenze…

L’immoralista, André Gide, 1902
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Bel-Ami

<<Quelli che narrerò in stretta successione sono due testi francesi a cavallo fra ‘800 e ‘900. Intravedo un sottile filo rosso fra loro e mi sembrano fornire un buon taglio, commestibile e ben digeribile, di morale dell’epoca. Non so cosa abbia dato il via a questo improvvisato excursus nella società francese di oltre un secolo fa, ma so qual è il limite, che io stesso mi sono imposto: una bottiglia di Bonarda per ciascun testo. Accomodatevi.>>

Knees
by ~uglyBug @ DeviantArt

Guy de Maupassant aveva in gran considerazione i baffi. Nel definire il fascino del proprio alter ego, Bel-Ami, ha riservato un ruolo da protagonista a questi benedetti baffi. L’elemento che indiscutibilmente, indissolubilmente, testimoniava la completa sovrapposizione fra lo scrittore reale e il personaggio d’invenzione. Non mi dilungo ulteriormente, ma questi beneamati baffi, per come li descrive, porrebbero ai giorni nostri Bel-Ami a capo di qualche filone underground di estetica boscaiola. Altro che il sex symbol della mondana Parigi, l’elegante, scostumata, Paris

Eppure questo romanzo segna un passo decisivo per il concetto di bellezza. Infatti essa esordisce come vero e proprio mito della nostra società solo in tempi relativamente recenti, dopo le lontane e sublimi vette elleniche, rese inaccessibili dalla perversione medioevale, e poi riesumata, dapprima con vigore nel rinascimento e nuovamente più tardi, un po’ infiacchita, nel neo-classicismo. La fine dell’800 scrittura la bellezza per un ruolo di primo piano nei tempi a venire, immortalata e resa ossessiva dalla rivoluzione comunicativa delle masse novecentesche.

Maupassant incunea il mito della bellezza nell’oceanica società attraverso un singolo individuo, Bel-Ami. Questo giovanotto squattrinato e un po’ nevrotico funge da sorgente infettiva per quell’utilitarismo spietato che ha fatto, e sempre farà, la fortuna di molti e molte. Considerarlo una vittima o un colpevole, poco cambia. Al grande scrittore francese importa testimoniare qualcosa che, forse, lo ha visto coinvolto in prima persona. Insieme agli immancabili baffi.

Come una fragile creatura, per la prima volta affacciata al mondo, la bellezza di Bel-Ami stenta a prendere il volo. Manca di coraggio.
Sarebbe molto semplice, per Maupassant, descrivere sommariamente, ma abilmente, la dinamica che porta “un bello” a conquistare senza ostacoli molto più di quanto possa “un brutto”. Egli, invece, dimostra smisurata sensibilità e dimestichezza in materia: Bel-Ami è insicuro, fatica a collegare i crescenti successi al proprio fenotipo.
La sicurezza del sapersi belli è apparente e instabile quanto il riflesso di Narciso nelle acqua pronte a inghiottirlo in un bacio. Ne è corollario il fatto che non vi sia un oggettivo vantaggio nell’esser belli, così come non v’è nessun merito, ma che si riveli un effettivo vantaggio la debolezza che segue la vertigine amorosa degli uomini e delle donne alle prese con “la bellezza”. Non si insista nel trovare in essa l’indizio di una colpa.

Dopo i primi passi la bellezza di Bel-Ami cresce in consapevolezza e, tanto quanto una fanciulla la notte prima di fiorire, inizia a farsi perspicace e priva di scrupoli. Essa permea, oltre che l’aspetto, i modi, rende graziosi i gesti, più efficace e modulata la voce; lo sguardo si fa luce coerente; le movenze incantano. Se sembra muovere i primi passi verso l’utilitarismo è perché, qua e là nel testo, sono sparse schegge di morte. Henry Miller scrisse che non è la gioia dell’esistenza che ci spinge a vivere, ma il tamburo incessante della morte. Qualcosa si affanna in Bel-Ami, affinché egli provi desiderio per qualcos’altro cui collega istintivamente un senso, e lo raggiunga. La morte lo sollecita a “guadagnare” per sé, pur beffandosi di ogni meta raggiunta in vita. La società si rivela qui nella sua natura spregevole, essa è una gradinata unta dall’odio dei mediocri che istintivamente, come lumache, iniziano a scalare inferiate su cui seccarsi fino alla morte.

Mi spiace Guy, ma Bel-Ami è un bell’imbusto sempliciotto con le idee molto confuse riguardo la vita. Non dico questo contro questo romanzo, lo dico contro di te, che tanto ti immedesimi nel suo protagonista… e te lo ripeto: quei baffi sono veramente orrendi…

Questa storia si gioca essenzialmente fra l’uomo e la donna. Anzi, fra quell’uomo in particolare e tutte le donne che incontra. Una vera guerra, gentilissima, romantica e crudele guerra. Non si capisce chi è la vittima reale del gioco sensuale, se l’arrivista sfrenato o l’oggetto delle sue interessate attenzioni, poiché nessuno dei due, in fondo, resta con una minima soddisfazione stretta fra le mani. Tutto si liquefa ed è di nuovo da inseguire altrove, negli occhi del prossimo amore. Ma sulla parte più geniale, riguardo alle donne di questo libro, ritornerò poco più avanti.
La leva diabolica di questo tranello è la solita ambizione gonfiata dall’invidia, un ferro rovente che scende dalla gola allo stomaco e impedisce di (ri)trovare un senso all’esistenza che non sia quello di esser superiore ad ogni altro essere.

In quest’onda impetuosa di bellezza e sensualità, Bel-Ami viene fagocitato da una solitudine gelosa di lui, che non lo fa innamorare mai realmente, che lo forza ad odiare chi dapprima desiderava (forse in reale buona fede), così da spingerlo avanti, oltre il prossimo limite della soddisfazione. Il prossimo obiettivo che lo ponga al riparo dallo scherno sociale e dai complessi di inferiorità per le proprie origini contadine.
E’ un uomo perduto, ma risoluto e sprezzante, via via più sicuro di sé e forte, che finirà con l’abbandonare definitivamente l’autocommiserazione iniziale. Ad ogni conquista si sente sempre più potente, più conscio che gli possa bastare un sorriso per mettere le mani su milioni e milioni di franchi.

E qui la parte geniale, quella che vendica l’amore infranto delle donne da lui sedotte e abbandonate, così come vendica moltissime lettrici, sicuramente un po’ infastidite dalle incessanti capitolazioni del gentil sesso innanzi alla bellezza di un uomo stronzissimo.
Lungo tutto l’arco della storia, abbiamo detto, si avvicendano diverse donne, le quali, in successione, rappresentano la scalata di Bel-Ami all’alta società parigina da lui agognata. Tutte passano da protagoniste a comparse, inevitabilmente.
Eppure, semi-nascosta, spesso trascurata, addirittura umiliata e, in un’occasione, percossa e picchiata, lungo il medesimo arco narrativo resta salda al suo posto la figura di una donna, sua ripetuta amante, la signora de Marelle…

…questo romanzo vi spacca il cuore quando, ormai convolato a nozze insieme alla più bella e ambita fanciulla di Parigi, colei che presto erediterà una fortuna e un impero, Bel-Ami esce dalla chiesa e, osservando il parlamento di fronte come ad ammirare la prossima meta, egli ripensa a colei che più di ogni altra abbia bistrattato e snobbato, ma forse anche realmente amato, con un delicato, delizioso particolare:
<<l’immagine della signora de Marelle che, di fronte allo specchio, si aggiustava i piccoli riccioli delle tempie, sempre sfatti quando si alzava dal letto.>>

L’amore è proprio alla portata di tutti.
Prima bottiglia seccata.

Bel-Ami, Guy de Maupassant, 1885
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Solomon Gursky è stato qui

Solomon Gursky è stato qui…
…e guarda caso è tutto raso al suolo!

Gli ingredienti delle nostre vite sono spesso insostituibili. Senza un determinato istante o una precisa notte; senza quello sguardo, proprio quello, lungo una scalinata; senza il ricordo di un’uscita imbarazzante nel mezzo di un pranzo di natale, la dolcezza di una partita a carte con quel baro esperto della nonna; senza la memoria del corpo, che tutto fa tornare alla mente, ma niente fa tornare nelle mani; senza il sale di una lacrima, che sembra mare uscito da chissà dove, le nostre vite sarebbero un’unica vita, una pietanza insapore, e non esisterebbero volti diversi e diverse storie per ognuno di noi.
Le storie.
Non quelle che vi tira la/il fidanzatina/o di turno, prima della prossima/o fidanzatina/o di turno e di quella/o dopo ancora, e via così; non le panzane estratte dal cilindro per giustificare l’ennesimo accesso di pigrizia cosmica.
No. Le storie belle, che è bello raccontare, che è bello stare ad ascoltare, con i gomiti appoggiati al tavolo e le mani sotto il mento.
Le storie, che poi sono tutto ciò per cui è valso parlare, scrivere. Vivere.

Mordecai Richler era forte, era bravo.
Ab illo tempore lessi “La versione di Barney” con un gusto carnascesco, sghignazzando e battendo i piedi, emettendo suoni gutturali e, sul finale, applaudendo, battendomi pugni sul petto come un gorilla, o un ultrà di qualche squadra di serie C.
Mordecai Richler era davvero, davvero bravo.

Quando l’amico M.B. mi passò, una sera di qualche mese fa, questo simpatico mattoncino di 600 pagine, detti automaticamente la precedenza ad altri due testi, che sommati mi avrebbero occupato al confronto un terzo del tempo. Più che pigrizia, si trattava del fatto che volevo essere dell’umore adeguato, ben sapendo che Richler scriveva per divertire e, spesso, per amareggiare. Mi occorreva il giusto humus emotivo…
Una volta iniziato, con tutta l’attenzione che richiede un così denso ed intrecciato romanzo, dichiarai solennemente a me stesso che Mordecai Richler era bravo due volte, anzi, bravo alla seconda: non solo un eccellente scrittore, un cesellatore di sorprese, mistero e umorismo, capace di intagliare perfette forme narrative, ma soprattutto in grado di riempire quelle forme con storie divertenti, appassionanti, coinvolgenti, mirabolanti, deliziose.

“Solomon Gursky è stato qui” è buono da leggere per due ragioni, dà piacere vederne la storia evolversi e dà piacere passare con gli occhi su quella bravura di tornitore.
Sebbene sia incontestabilmente una grande opera, questo testo necessita di molta attenzione. Avete presente l’opera lirica, alla cui melodia in evoluzione si sommano parole declinate su note musicali, raffiguranti nel loro insieme una storia? Presente quando non ci si capisce più niente, si getta il libretto alle spalle e si inizia a dormire, russando in fianco a qualche signora elegante, munita addirittura di elegante binocolo da teatro? Il rischio è quello.

Ad esempio, mia madre non potrebbe mai leggere questo libro! Perché, fra le varie complessità, è farcito di lessico yiddish, lingua giudaica, orribile da pronunciare e quasi impossibile da ricomporre mentalmente mentre la si legge, da tante consonanti contiene. E mia madre non le sopporta queste cose.
Questa, però, non è una peculiarità di M. Richler. Nient’affatto. Anche se non posso assolutamente definirmi esperto in materia e quindi azzardare generalizzazioni, la mia esperienza mi porta ad affermare che gli scrittori ebrei si divertono a infestare i loro romanzi di yiddish (leggete Auslander…a proposito, Irene te lo devo restituire!). E’ un loro divertimento. Forse non possono farne a meno. D’altra parte la religione ebraica, al pari di quella araba o forse più, permea l’intera vita del credente, che egli vi sia renitente od ortodosso. Non si scappa.

Come se non bastasse, la storia abbraccia due secoli e cinque generazioni di una famiglia ebrea arrivata misteriosamente dal circolo polare artico al cuore del Canada, partendo forse dalla Russia, forse dall’Australia o dal Sud Africa! Occorre guidare con prudenza e rispettare i limiti di velocità, altrimenti il bellissimo paesaggio letterario su cui si staglia questa storia meravigliosa vi passerà di fianco senza lasciarvi lo stupore che ha lasciato a me.

Il vizio, la passione, lo strapotere fine a se stesso, il cinismo, il sarcasmo, i fallimenti e le vittorie senza rivincita, l’omicidio, il sesso sfrenato, le caricature del tipico ebreo e del tipico capitalista, oggetti misteriosi, varie performance sentimentali di dubbia moralità; il Canada del 1800 e il Canada del 1980, il proibizionismo, il volo misterioso di un corvo attraverso i secoli, il cannibalismo, la corruzione, il lusso immane e l’avarizia più incancrenita, la menzogna sfacciata, la truffa, il santone e l’usuraio, il talento della gazza ladra e l’operosità muta del somaro, la rabbia, l’invidia e la generosità che non alza la voce.
Il tutto amalgamato alla perfezione, in una complessissima ricetta fatta sobbollire per più di 500 pagine, tenendovi all’oscuro di tante, tante cose.

Questo romanzo è esagerato. Esagerato. Questo romanzo è una bomba! Ti rapisce, ti strega, lo assorbi esattamente coi gomiti sul tavolo e le mani sotto il mento, non puoi fare a meno delle sue pagine e mentre stai facendo qualcos’altro ci pensi, pensi che è a casa che t’aspetta e ti godi già quelle ore di immersione stralunata.
A patto che tu vada con calma e giochi d’astuzia: non metterti a gareggiare con la fantasia di Mr. Richler, o finirai fuori strada. Seguilo, la soluzione al mistero arriverà e sarà un vero dispiacere, una piccola morte, leggere le ultime righe e l’ultimo punto di questa storia, per moltissimi inenarrabile.

Solomon Gursky was here, Mordecai Richler, 1989
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Il grande Gatsby

Scena di una “festicciola” di Gatsby, secondo Hollywood

Da qualche giorno rimugino sull’ennesimo grattacapo femminile, l’unico tipo di problema nella cui soluzione siano accettate approssimazioni ai limiti del fatalismo.
Quante spugne gettate…
Sospeso fra spaesamento e caustici sarcasmi, intenzionato a non cedere al pregiudizio (la realtà mi sventola la mano davanti agli occhi gridando “sveglia”, ma io m’ostino a sognare un altro po’!), sono andato alla ricerca di una frase ben precisa, di cui non ricordavo che il messaggio, avendone persa la forma. E si sa, la forma espressa dai grandi autori sovente rende quel messaggio un proiettile ad alta penetrazione, lasciandoci moribondi di estasi ed eternamente grati.

L’autore in questione è un peso massimo della cultura dello scorso secolo; Francis Scott Fitzgerald è a buon diritto considerato, insieme al contemporaneo e amicale Hemingway, l’adottivo padre spirituale della Generazione Perduta. Ma questa, che potrebbe ormai sembrare un’etichetta prima ancora commerciale che accademica, è in verità l’esatto ritratto di coloro che vissero la deflagrazione dell’American Dream e per primi furono costretti a sognare ricchezza, bellezza, facilità e spensieratezza, senza possibilità di scelta. Il tutto condito dall’onda lunga delle disparità ottocentesche, da un paio di guerre mondiali inframezzate dalla grande depressione di fine anni ’20, e da derive nazionalistiche che mal vedevano l’artista non allineato al Grande Sogno. Di tanto in tanto mi chiedo come verrà definita la nostra generazione; non lo so, ma sicuramente l’epiteto scadrà con decisione al volgare.
L’agognata frase è contenuta nell’unico libro finora incontrato che senza esitare definisco, ogni volta che ne parlo a qualcuno, perfetto. Infatti, “Il grande Gatsby” è la prova lampante che, se un’idea di perfezione è possibile, è perché essa, talora, seppur molto raramente, prende forma per uno splendido istante, per ritornar poi un concetto astratto, l’immota stella polare.
L’atmosfera di questo romanzo è languidamente affondata nei caldi cuscini del sogno, che ne ovatta la narrazione; la parola è ipnotica e la storia rassicurante, anche alla prima lettura, quando tutto è ancora da scoprire, prima del mistero e prima della fine mozzafiato.
La perfezione si riverbera nelle frasi, che girano esatte, in un ticchettio di orologio svizzero. Oserei dire di più, ossia che siamo di fronte a “l’estrema sofisticazione: la semplicità” (Leonardo da Vinci).
Il pregiato motore della storia è a tratti roboante, ma sempre distinto ed elegante; si muove costante e padrone di sé da un capo all’altro del testo, come una di quelle lussuose automobili degli anni ’20, una di quelle da cui Fitzgerald si sporgeva raggiante d’emozione, disperato dalla consapevolezza di una gioventù rimasta nella scia là indietro, nella polvere dei ricordi. Ben sapeva che non sarebbe mai stato più felice di così, e oggi noi ben sappiamo che non sarebbe mai più stato nemmeno così perfetto.
Le persone ritratte ne “Il grande Gatsby”, elegantissime e scomposte, recano i segni evidenti di quel benessere sempre illusorio, tradito da gesti convulsi, fiotti d’invidia, ipocrisie e perfide benevolenze. La ricchezza resta comunque, come in tutte le opere di questo autore, un baluardo, un mito di redenzione, la sacra reliquia della modernità, più della nobiltà capace di inebriare senza assuefare. Ma come accade a quasi ogni dorato mito, essa si umanizza in fanatica degradazione (questo è ancor più evidente in un altro testo di Fitzgerald, “Belli e dannati”).
Uno dei cardini del racconto sono le “festicciole”, così le definiva Gatsby, ambientate nella fastosa e lussureggiante villa che dominava le invidie di chi vi si recava, a Long Island. Credo che nessuno di noi abbia mai partecipato a cotanta esagerazione, eppure sono convinto che una traccia di quelle sensazioni, provate magari in un contesto minore per lusso e perdizione, tutti l’abbiamo dentro di noi. Prendiamo per esempio quell’emozione, così volatile, che ci prende dopo un paio (e oltre) di bicchieri, l’avete presente? Ecco come Fitzgerald riassume, anche qui perfettamente, quel cocktail (parola che calza a pennello) di sensazioni inebrianti: “…tutto si trasforma in qualcosa di significativo, basilare e profondo”. Applausi! Ma non è questa la frase che vado cercando, e voglio addentrarmi ancora un po’ in questo testo stupendo. Parlo d’amore.
Chi è Gatsby? Qual è la sua storia? E cos’è quella luce verde che egli contempla assorto nell’insondabile, ogni notte?
Non posso dirvelo. Ma posso dirvi che Gatsby è l’incarnazione della volontà amorosa che lo fa scavare, con i soli artigli della bramosia, inconfessabili gallerie attraverso lunghi anni di pietra, per giungere ormai stremato all’appuntamento con il destino, braccato da un nebbioso passato.
Quella luce verde è l’unico sole per Gatsby, che sorge al tramonto al di là del molo e ne illumina l’insonne speranza, per metà promessa e per metà condanna.
Le infinite ricchezze, eserciti di ammiratori e detrattori, non possono saziare quell’uomo che, a prua di se stesso, è teso a un amore disperato, fino ad apparire distaccato, perso in un sorriso così difficile da decifrare, eppur così affascinante. La stessa determinazione, ma espressa in maniera opposta, la troviamo nella teatrale e tragica maratona oceanica del Capitano Achab. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che perdere la testa per Daisy è ben più comprensibile che perderla per Moby Dick. E mi troverebbe d’accordo.

Recentemente ho sentito voci riguardo un film in uscita che ha come soggetto proprio questo romanzo. Sebbene la scelta di Leonardo di Caprio come Gatsby sia sicuramente centrata, c’è qualcosa di buffo, anzi, di beffardo: Fitzgerald era un abilissimo sceneggiatore (tant’è che proprio questo testo, leggendolo, ci scorre davvero come un film nella mente), eppure gran parte delle sue sventure furono imputabili a quella Hollywoord imballata di retorica di allora, che lo snobbò, e che adesso, in totale stipsi creativa, va a recuperare questo romanzo per recuperare attenzioni (leggi incassi). Temo molto per questo film in uscita, come temevo per “On The Road”, uscito lo scorso inverno e da me saltato a piedi pari. Temo molto perché secondo me Hollywood, fra fumetti e videogame, ha perso un po’ la mano nel trattare i grandi romanzi, le vere grandi storie che fanno parte della nostra vita.

Ma la mia frase? Eccola qua, appena trovata! Che bello poter polemizzare sulle donne, quando non ce la si fa proprio più a sopportarne nemmeno il doppio cromosoma X, avendo al proprio fianco Fitzgerald: “la disonestà delle donne è qualcosa che non si biasima mai molto profondamente: mi dispiacque per un momento, ma poi non ci ripensai più”.

E adesso mi godo qualche minuto di estasi, non se ne abbiano le care amiche donne per questa infima soddisfazione… che poi il dente avvelenato mi cade sempre!
Buona lettura!

The great Gatsby, Francis Scott Fitzgerald, 1925
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Opus pistorum

photo by Marcella Marcolinwww.flickr.com/people/marcellamarcolin/

Untitled photo by Marcella Marcolin
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Un avvocato del diavolo non basterebbe a difendere questo testo. Servirebbe un intero studio di avvocati del diavolo, uno più bravo dell’altro. La materia è talmente scottante che è abbastanza normale, durante la lettura, accertarsi spesso di non esser prossimi a qualcuno che potrebbe gettare l’occhio e farsi un’idea di ciò che si sta leggendo. Se solo riuscisse ad afferrare un paio qualsiasi di frasi di Opus Pistorum, gli avvocati servirebbero anche a noi.
E’ un testo monotematico, che non apre a nessuna riflessione, a nessun volo pindarico cui Henry Miller ha abituato i suoi lettori. Prendiamo per esempio quelle stupende pagine di “Tropico del Cancro”, o di “Primavera Nera”, in cui si assiste sbalorditi a una fioritura del pensiero senza contorni – niente di tutto questo in Opus Pistorum.
Solo. Esclusivamente. Sesso.

Facciamo un passo indietro, è più che mai importante contestualizzare. Dove siamo? Parigi. Quando? Tardi anni ’30. Avete visto “Midnight in Paris”, di Woody Allen? Ecco, è utile per farsi, nel giro di un’ora e mezzo, un’idea di che razza di calderone artistico fosse Parigi a quei tempi. In ogni café stava una cerchia differente di artisti, artistoidi, pazzi di ogni tipo. Non si è mai capito come si guadagnassero da vivere, ma è un mistero piacevole, che ci fa ben sperare nel caso le cose vadano male anche a noi (e visti i tempi…). L’arte scorreva per le strade come una fogna intasata lascia correre l’essenza umana dai quartieri della miseria a quelli borghesi. Non esistevano più Parigi, come sono sempre esistite più New York, Parigi era unica, un tutt’uno di donne, uomini, muri, finestre, viali alberati.
A spingere centinaia di artisti di eccellente calibro (non li elenco, ma fidatevi, erano i migliori) ad abbandonare prevalentemente l’America per insediarsi a Parigi, fu la ristrettezza culturale americana, unita a politiche USA scettiche della funzione dell’artista e forse la voglia degli artisti stessi di visitare l’Europa, che nell’immaginario americano è tuttora una sorta di valle incantata, simile a una hobbiville urbana e chic. Sull’impeto di questa continua scoperta la vena artistica di questi soggetti appariva inesauribile, eclettica, istrionica. Per le arti fu un’epifania…
A tutto questo Henry Miller giunse tardino, come se ad una festa uno arrivasse mentre tutti sloggiano. Pensate fosse triste per questo? Macché, per farsi anche solo una nebbiosa idea di chi fosse Miller occorrono anni, e letture estenuanti. Mi limito a dire che Miller visse Parigi con irrefrenabile vitalità, a tal punto da farci sembrare il suo rapporto con essa simile ad uno stupro biunivoco. E qui si torna precipitosamente al centro del discorso.
Opus Pistorum è un libriccino tremendo. Un distillato di sessualità capace di distorcere ogni aspetto della realtà. E’ un amplesso ininterrotto di quasi 200 pagine, tant’è che potremmo chiederci che dieta seguisse Miller, per essere tanto attivo, così al di là di ogni umana prestanza…
La sessualità primitiva e ancestrale che ci viene sbattuta in faccia senza alcuna remora morale è del tutto scollata dall’interpretazione che ogni società moderna si impegni a strutturare per i suoi individui. Ogni legge, ogni inibizione, ogni tentativo di contenimento, ogni cosa che sia opera dell’uomo – e non della natura – praticata con lo scopo di “recintare” il sesso, qui viene divelta e scagliata nello stomaco dei benpensanti. Miller stesso viene travolto dalla propria furia e spesso resta stordito, seduto fra le proprie frasi, ansimante e incapace di spiegare perché succeda quel che succede.
Se basate la vostra sessualità su qualcosa che non sia l’atto sessuale in sé, ossia se “aggiungete”, se “edulcorate”, se “correggete”, potete reagire a questo testo in due maniere differenti: disgustandovi, rafforzando le vostre difese morali, o trasformandovi, abbandonandole per sempre. L’indifferenza non è possibile, l’apprezzamento o la critica di superficie nemmeno. Qua si scatenano demoni insopprimibili, fuggire o lottare!
Se però sarete in grado di ammutolire la vostra coscienza e di sopportare il fuoco ad alzo zero che Miller aprirà contro i vostri costumi, riuscirete ad entrare come mai avrete fatto prima nel mistero della sessualità, sebbene essa rimarrà ermeticamente insondabile, come lo è il fenomeno che chiamiamo dapprima vita e poi morte.
Contrariamente a un De Sade, visto che siamo in tema di galoppate, Henry Miller non potenzia la dimensione intellettuale della tensione sessuale, fino a declinarla in quelle perversioni che rendono tanto suggestiva un’opera quale, ad esempio, “Justine o gli infortuni della virtù”. Ciononostante è possibile cogliere un retrogusto di acuto compiacimento per la soddisfazione dell’istinto, che personalmente interpreto come la sacra giustificazione per ogni azione che la strettissima aderenza alle leggi naturali garantisce.  In questo caso quella dell’erezione del membro maschile.
Miller sente di essere vicino al “vero”, perché si attiene all’istinto, pur celebrandolo oltre misura. Questi meccanismi sono propri delle civiltà che ci ostiniamo a definire primitive (noi che saccheggiamo il pianeta e bombardiamo bambini, mentre ci masturbiamo per un iphone o un automobile, siamo quelli evoluti), laddove il rito della riproduzione è ancor più scevro di superfetazioni e convenzioni sociali, e permane una radicazione magica, seducente, al nucleo della vita.
L’ovvia critica, che viene mossa a Opus Pistorum dal 1941 ad oggi, critica di una banalità che fa venire il latte alle ginocchia, è quella di oscenità.
Esatto, nel 2013 c’è ancora qualcuno che di tanto in tanto rispolvera questo arcano termine…

Altro punto a favore di questa controversa testimonianza: oltre che con la pulsione sessuale, esso costringe a un confronto con il concetto di osceno. Lo fa senza mezze misure, visto che tratta con somma disinvoltura episodi di prostituzione, pedofilia, incesto, stupro di gruppo, tortura e altre “facezie” degne di un Pietro Pacciani alla moda. Non dite che non vi avevo avvisati!
Facendo un passo a latere, spostandoci per un istante in un altro testo di Miller, ovverosia “Ricordati di ricordare” (1947), l’autore affronta con l’acuminata intelligenza che lo contraddistingue la questione dell’oscenità in una discussione dal titolo “L’osceno e la legge di riflessione”. Illuminante. Non sono abbastanza preparato e intelligente da poterne riassumerne la meravigliosa tessitura, la stravagante serietà con la quale abbraccia una materia così difficile. Mi limito a riportarne la perfetta conclusione, concludendo questo mio imperfetto post:

 << Ci è stato chiesto di conoscere l’amore, sperimentare l’unione e la comunione, e così conseguire la liberazione dalla ruota della vita e della morte. Ma abbiamo scelto di restare di qua dal Paradiso e di creare attraverso l’arte l’illusoria sostanza dei nostri sogni. In un senso profondo non facciamo che ritardare eternamente l’atto. Flirtiamo col destino e ci culliamo col mito fino a prender sonno. Moriamo nei premiti delle nostre tragiche leggende, come ragni presi nella propria tela. Se c’è qualcosa che merita di essere chiamato “osceno” è quest’obliquo, indiretto confronto coi misteri, questa passeggiata fino al ciglio dell’abisso, godendo tutta l’estasi della vertigine ma rifiutando di cedere al fascino dell’ignoto. L’osceno ha tutte le qualità dell’intervallo nascosto. E’ vasto quanto lo stesso Inconscio ed amorfo e fluido proprio come la materia dell’Inconscio. E’ ciò che viene alla superficie come strano, inebriante e proibito, e che perciò arresta e paralizza, quando in forma di Narciso ci chiniamo sulla nostra immagine nello specchio della nostra iniquità. Riconosciuto da tutti, è malgrado ciò disprezzato e respinto, per cui riemerge costantemente in guisa di Proteo nei momenti più inaspettati. Quando è riconosciuto e accettato, sia come prodotto dell’immaginario sia come parte integrante della realtà umana, non ispira più terrore o revulsione di quanto non ne ispiri il fior di loto, che affonda le sue radici nel fango del ruscello dal quale è sostenuto. (traduzione Vincenzo Mantovani)>>

NB: in inglese il vocabolo miller significa mugnaio. Il nostro Henry ha intitolato Opus Pistorum questo testo, giocando sul significato del proprio cognome. Pistorum sta per le macine dei mugnai che frantumavano i cereali. Quindi letteralmente l’opera delle macine, che rimanda alla persistente attività sessuale di questo testo!

Opus pistorum, Henry Miller, 1941
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Che paese, l’America

© Luis E. Andrade / Pintando

La società americana del cosiddetto Maccartismo è stata ritratta da una miriade di scrittori, dai più famosi ai più sconosciuti. New York, capitale intellettuale degli States, aveva il proprio cuore rivoluzionario nel Village, fulcro dell’arte, del pensiero e delle barbe incolte. Era lì che chiunque sapesse scrivere si sentiva legittimato a chiamarsi scrittore; stessa cosa per chi suonasse uno strumento o brandisse un pennello. Nel giro di poche centinaia di metri si passava da accettati a rifiutati, perché bastava di poco avventurarsi fra i grattacieli di Manhattan, simili ad abnormi denti erotti dalle grigie gengive del Mostro Capitalista, che un’innocente barba veniva vista come osceno oltraggio alla serenità dei giovani rampolli indottrinati alla conquista della ricchezza, di una bionda donna cattolica del New England, di una villetta con garage, di due o tre marmocchi, di un cane e del mondo intero.
Non potevi stare nel mezzo. Al senatore Joseph McCarthy bastava uno schiocco di dita e venivi posto sotto interrogatorio, con accusa di comunismo. Quindi la peggiore. Meglio rigare dritto, prendere le scalinate che portavano dal collegge all’università, quindi a un attico con vista sul fiume Hudson e poi sempre più su fino al paradiso dei ricchi e potenti servi di Dio (il dio denaro).
Oppure? Be’, oppure vivere in un appartamento “a solo acqua fredda”, insieme a un’altra dozzina di “comunisti, negri, musicisti, eroinomani, froci, puttane, alcolizzati, scrittori, poeti, pazzi”, trascorrendo le giornate a inseguire le parole giuste per riconquistare un mondo sordo. Forse forse diventavi amico di Ginsberg, di Kerouac, Corso, Ferlinghetti, Carr, Burroghs, Cassady, e con un altro paio di forse diventavi uno scrittore eterno, e il tuo unico dio era in bolletta quanto te…
Frank McCourt, che non è uno scrittore eterno (anche se il suo bel Pulitzer se l’è portato a casa), è stato un uomo normalissimo. Ora, difficile definire la normalità di allora, non sapendo neppure come ben definire quella odierna, ma leggendo questo testo balzano all’occhio qualità e limiti di una persona semplice, sveglia e partecipe del proprio mondo. Si avverte realmente la “normalità”.
Questo romanzo abbraccia circa 30 anni di vita dello scrittore; strettamente autobiografico, descrive la miseria e l’entusiasmo di un immigrato irlandese poco più che adolescente, alle prese con una società impaurita dal resto delle nazioni, sempre pronta a far sentire escluso chiunque. E non solo a farlo sentire escluso, ma ad alienarlo fino a ridurlo in poltiglia, ultimo degli ultimi.
Co-protagonista di queste avventure, ora divertenti, ora tragiche, è la sua famiglia, dapprima rimasta interamente in Irlanda, e in seguito, un membro alla volta, introdotta per mano di McCourt nel grande Colosseo dorato delle occasioni, l’America!
La famiglia rappresenta l’isola nativa, l’Irlanda, terra umile ma fiera e solidale, accostata ad un’America ricca ma ingrata, fondata sulle ciniche solitudini. La madre di Frank, i suoi fratellini, il padre alcolizzato che li ha abbandonati in culla, la religione pervasiva che scandisce le intere esistenze terrene; tutto questo viene alternativamente sbeffeggiato o rievocato con nostalgia e dolore.
La scrittura è a tratti trasognata, sembra prendere le distanze dall’orrore e dalla profonda miseria che ritrae; lo stesso meccanismo infernale che Bukowski cercava di sabotare immergendolo nell’alcool e nell’odio, McCourt lo fa saltellare da una mano all’altra, quasi giocandovi. Come a dire che non è niente di grave, dopotutto, veder infrante vite e sogni, assistere all’umiliazione dei poveri, all’emarginazione dei non allineati… E’ in questa seria spensieratezza che prende forza la testimonianza di McCourt: egli non fa caricature, non inventa mostri da esorcizzare. No, lui fotografa l’America e te la mostra, trattenendo un sorriso che potrebbe mostrarti i suoi denti rovinati dalla povertà. Non ha la rabbia robotica e geniale di Henry Miller, ma riesce ugualmente a farti tastare con mano l’ingiustizia e l’indifferenza che l’umanità può scagliare contro sé stessa, con insuperabile perfidia.
E’ una lettura scorrevole, nella quale dieci anni passano in dieci parole; nessuna frase papabile di risuonare sui social network per descrivere la noia di qualche sentimentale in cerca di attenzioni; non è un testo ricco di sapere “umano”, bensì di sapere “personale”. Ma quando chi scrive è un’anima incorrotta questi due termini coincidono e ci fanno dono del ritratto di una vita più che fantastica, oserei dire normale, nella sua accezione più positiva e, paradosso da Sogno Americano, serena.

‘Tis, Frank McCourt, 1999
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Le ambizioni sbagliate

Rüdiger Poborsky

Photo by Rüdiger Poborsky

Le ambizioni sono il volano della maggior parte delle vite mediocri di questo pianeta. Tutti ci siamo sentiti ripetere, chissà quante volte, che ci occorreva essere ambiziosi, così ci saremmo realizzati. Scusate tanto, volete dire che senza un’ambizione si resta, che ne so, virtuali? Immaginari? Eterei?
L’ambizione è catalizzata dall’infelicità. Chi ci raccomanda di essere ambiziosi  è senz’altro molto infelice, e da molto tempo. Sì, perché un essere umano, a mio parere, nasce completo e senza scopo. Deve solo attraversare l’arcobaleno della vita senza far troppi danni, a sé e agli altri (tipo guerre, violenze, politica…). Gustarsela, in una parola. Godersi la vita, in qualsiasi contesto si ritrovi. Anche il peggiore. Perché la felicità non è una questione di arredamento, ma di architettura primitiva…di fondamenta.
La tensione che scaturisce all’instaurarsi in noi di un’ambizione, ci priva del presente, impedendoci di parteciparvi. Siamo sospinti al raggiungimento di “qualcosa” che appaghi il nostro brutto senso di vuoto. Nel frattempo non viviamo. Quanta gente conoscete che ha come unico scopo nella vita quello di massacrarsi di lavoro per avere una “vecchiaia serena”? Ecco, prendete le distanze da queste persone, perché non sono più esseri umani. Sono niente.
E’ solo un esempio, ma si potrebbe portarne infiniti altri; di norma ogni ambizione è sbagliata.
Alberto Moravia, nel 1935, se ne esce con questo romanzo particolare, che leggerlo è a dir poco spassoso! La struttura è basata unicamente sul dialogo, le descrizioni fisiche e materiali, di personaggi ed esterni, sono molto limitate: quando appaiono sono di una malinconica sciatteria che farebbe “sgolosare” Zola, Hugo, Baudelaire (ma la Francia c’entra niente qui). Quella della decadenza delle ambientazioni di Moravia non è una novità, prendete in mano, per esempio, “Gli indifferenti”, per accorgervi fin dall’incipit che il palco non è che un riflesso del cosmo interno dei personaggi.
La storia è magistralmente sostenuta dalle vicende sentimentali di cinque personaggi della medio-alta borghesia italiana degli anni ’30. Il romanzo inizia lento lento, e sulle prime può sembrare addirittura troppo leggero, quasi vacuo. D’altra parte, a chi importa delle corna di questo o quest’altro, riportate dalle labbra dei personaggi in quello stile così convenzionale e morigerato, per nulla gossipparo? Eppure si annusa subito una certa tragedia nell’aria…
All’avanzare della storia l’intreccio si fa intricato e ossessivo, come quelle stronzissime parrucche che a volte sceglie di fare, sua sponte, una lenza da pesca…Tanto è vero che si resta impigliati in essa come pesci nella rete! E il finale è da psico-thriller-noir!! Meraviglioso!
Moravia coglie l’attitudine umana alla contraddizione e agli accessi di ogni sorta, ira, desiderio, sottomissione, annientamento, amore. Impeti romantici che difficilmente si può ignorare. Questi impulsi mutano i suoi personaggi, rendendoli tanto indecifrabili quanto umani e prossimi a noi.
L’ingrediente geniale, che rende questo romanzo diabolico, è la menzogna. Non vi è alcun dialogo che non contenga traccia di calcolo o menzogna. Ogni parola è spesa, più o meno consciamente, con fini capziosi verso l’interlocutore, per strappargli un sentimento, una promessa, un qualcosa di ben preciso. E quanto è assolutamente vero, che tutti non facciamo altro che fingere o mentire fra di noi e con noi stessi! Quanto è liberatorio e al contempo umiliante, constatare che tutti sappiamo che tutti sanno che tutti mentono! E qui si torna alle ambizioni. Perché è sempre in nome di un desiderio, di una tensione ambiziosa, che si giunge alla menzogna. Affinché si abbia un “vantaggio”. Negare tutto questo ne sarebbe la conferma, la consacrazione definitiva!
Moravia, più intelligente e onesto di molti altri, lo ammette candidamente e con altrettanta semplicità ce lo mostra. Si spinge anche oltre, e rende co-protagonista della menzogna la donna, il che rende il quadretto davvero familiare…

Donne sentimentali, che prendono tutto sul tragico, si danno un monte di arie, e immaginano di avere chissà quali drammi nella loro vita“.

Dopo aver sistemato in questo modo più o meno il 99% della popolazione femminile dell’occidente degli ultimi 4-5 secoli, l’autore affonda la lama delle parole e ci racconta come l’uomo tenda a ingannare se stesso e poi gli altri (ingenuo), la donna inganni invece prima gli altri e poi se stessa (perversa). Sono generalizzazioni, ma anche la matematica e la fisica si fondano su leggi e assiomi, e non sono forse queste estreme generalizzazioni? O vi spingereste ad argomentare l’opposto, magari in sede d’esame, di fronte al/alla prof./prof.ssa?
Ma senza che mi lasci trascinare oltre dal gusto della provocazione, consiglio a uomini e donne indistintamente, di attingere da questo romanzo, di farsi intrattenere da esso senza riserve. La commedia dell’amore è qui ben rappresentata, nella sua essenza egoista e volubile. L’amore “occidentale” appare per quello che è, un gioco consentito a tutti, da 0 a 99 anni e oltre, in cui l’unica regola è l’inganno e le molte sfumature non sono che interpretazioni del singolo, laddove il non detto vale molto più che il detto.
E’ un romanzo dolce e amaro, che fa luce e che quindi getta anche ombre, che fa incazzare e fa perdonare. Che illude e disillude. E non è forse l’amore il terreno migliore per coltivare ambizioni? Dove è possibile trovare una tensione superiore a quella amorosa?
Ogni personaggio di questo riuscito romanzo reca la propria ambizione, d’amore o di denaro, come una maledizione, e ne verrà travolto e distrutto, obliato. Questa è una lezione, chi ha per la testa vaghe intenzioni di ambire a chissà che o chissà chi, prima passi qualche ora col naso dentro queste pagine.

Le ambizioni sbagliate, Alberto Moravia, 1935
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L’amante di Lady Chatterley

L'amante di Lady Chatterley

Just Forking Around II…
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Della scorsa estate conservo un vago ricordo accecante, di sole bianco e sterminate spiagge. Non parlo di spiagge marittime, quelle ormai sono parcheggi di incandescenti corpi adiposi che sfrigolano noioso sesso meccanico…
Il corso del Po è un incantesimo crudo, ben più reale di mete turistiche vanamente blasonate; è silenzioso, è vasto, è lì anche senza di noi. Per le sue spiagge deserte ho passeggiato, sotto il sole più accanito, e ogni sera d’estate l’ho visto sprofondare nelle acque mercurio.
Ad accompagnarmi in questa villeggiatura per pochi (come sono orgoglioso dei miei cazzeggi lungo il Po!), in questo ritiro in grembo a piante spezzate e urli di gabbiano, c’era un libro che con tale habitat non aveva decisamente nulla a che vedere. La sua memoria è una collezione di brughiere e bassi colli erbosi, di terre inglesi impregnate di pioggia e di cieli fuligginosi; portarlo lungo le rive del Po, seccarlo alla canicola padana, impolverarlo di sabbia e farlo percorrere da minuscoli insettini senza requie – tutto questo – non l’ha fiaccato, non l’ha impensierito. La forza di questo testo risiede nell’estrema prossimità all’energia vitale, allo strumento della perpetuazione di ogni essere – le pagine di questo libro sono incardinate al midollo dell’essere umano. E’ possibile leggerlo in ogni luogo e in ogni tempo, senza che il contesto possa filtrarne l’essudato, così denso, così pregno di dolci testimonianze.
“L’amante di Lady Chatterley”, per mostrarsi a noi così buono, per convincerci senza l’uso della forza riguardo la sua purezza, la forza l’ha usata eccome, molti anni fa: ha dovuto divellere l’ottusità borghese degli anni ’30 in Inghilterra. Un lavoro estenuante. E questo solo perché l’inchiostro che l’ha ritratto proveniva dal pozzo abissale del sesso. Processi in ogni paese anglofono della terra!
Accuse di pornografia e di oltraggio alla morale oggi ci fanno ridere. Ogni giorno possiamo verificare le nostre conoscenze ginecologiche a qualsiasi ora, accendendo il TV su un qualsiasi canale, sostando innanzi allo sculare di donne  divorate dall’ignoranza e dal nulla. E gli uomini sembrano bambini pelosi troppo cresciuti per poter passare il tempo su qualche giostrina al parco. Per noi non ha più senso il vocabolo “osceno”. Se avete letto, o leggerete, questo romanzo, non troverete alcunché di osceno. Ma definire in cosa consista l’oscenità, è compito arduo. Henry Miller (insieme all’adorata Anaïs Nin, un estimatore di Lawrence) ha tentanto di farlo, in un testo contenuto in una raccolta intitolata “Ricordati di ricordare”. Ma di questo scriverò più avanti, quando “l’osceno” sarà ben più visibile, parlando appunto di Miller. A quei tempi, “L’amante…” era un libro osceno. Punto.
Innumerevoli i tentativi di obliarlo. Lawrence in tutto questo perse anche una montagna di soldi, perché il libro circolava eccome, ma erano tutte copie pirata, di cui egli non percepiva percentuale alcuna. Ma certi fenomeni umani trionfano per definizione, per nascita. Era naturale che questo libro potesse un giorno nutrire senza dolo generazioni e generazioni, perché ciò è giusto. Perché questo è un libro che parla di noi tutti, noi tutte. L’autore trova qui ampio risarcimento.
D. H. Lawrence ha affrontato l’insidioso tema della doppia vita che conduciamo fluttuando fra mente e corpo. Già la sua Inghilterra viveva il primato dispotico della mente, della “ragione”. E uno dei protagonisti, addirittura paralitico, ma estremamente ricco, incarna alla perfezione l’individuo moderno, tutto rattrappito dentro la propria scatola cranica. Fino all’impossibilità di “stare” dentro la vita, di parteciparvi spontaneamente. Il corpo senza la mente è brutale; la mente senza il corpo è una fuga dalla nostra duplice natura di esseri umani. E’ questo, in sostanza, il messaggio di Lawrence. Attenti, ci dice, tentate di controllare ogni aspetto della realtà con i tentacoli della mente e ne finirete strozzati, in una vita arida, una vita piuttosto morta. Constance Chatterley (la nostra Lady) scopre tutto questo attraverso mesi e mesi, anni, di repressione e mortificazione, accanto a un marito impotente e devoto più al futuro dell’industria del carbone che a quello del proprio matrimonio.
La rigenerazione individuale inizia con la comunione, con l’integrità di ambedue corpo e mente, con la loro solidale essenza. Sarà grazie alla mancanza di grazia intellettuale, abbondantemente rimpiazzata da carnale passionalità, del guardiacaccia Mellors, che Constance vivrà orgasmi capaci di far breccia nelle mura psichiche che la ottenebravano. La forza del sangue, del pulsare delle membra, del calore esponenziale che raggiunge il nocciolo del sole, l’annientamento di sé che porta all’unione universale dei due (e guardate quanto era avanti Lawrence, che candidamente diceva, già 90 anni fa, che questo poteva avvenire anche fra omosessuali!) – questa danza ballata al ritmo corale di vita e morte – il sesso libera l’individuo di secoli di superfetazioni sociali. Ma solo quando l’individuo stesso, per primo, sarà disposto a sacrificare i vantaggi addotti dalla razionalizzazione estrema del presente. Razionalizzazione, ricordiamo, che porta alla paradossale perdita del presente, in una continua fuga in avanti in un futuro inintelligibile o all’indietro in un passato rassicurante.
Il romanzo è perfettamente bilanciato, su più livelli: il livello intimo di ogni personaggio, il livello delle relazioni, diverse fra loro in base ai vari protagonisti, il livello dei rapporti di classe, fra alta borghesia e “workers”. E’ armonioso.
La narrazione è pura, coinvolgente e intelligente, abilmente ricamata con grande maestria. Non vi annoierete, terrete il fiato sospeso quando il triangolo amoroso verrà a galla con tutta quanta la sua sconcertante crudeltà. Starete dalla parte del paralitico, assolvendo voi stessi dalle scelte di una mente che sempre tenta di conservare vantaggi a scapito di qualcun altro, e starete dalla parte del guardiacaccia che impara dal sesso la sorprendete dimensione psichica dell’amore. Proverete il medesimo blocco allo stomaco dell’innamorato privato dell’amata, la rabbia e la frustrazione per un corpo mutilato, la vergogna per un amore inconfessabile si frantumerà davanti ai vostri occhi e dentro il vostro cuore. Questo romanzo andrebbe insegnato nelle scuole, altro che quella merda di Manzoni.
Sentendosi in dovere di difendere la propria opera, quindi se stesso, Lawrence scrisse un saggio magnifico, sovente allegato a questo romanzo, nella parte finale. Leggetelo. E’ importante tanto quanto il teso principale. Non è affatto un’appendice. Lawrence ha infuso in queste pagine tutta quanta la sua sfavillante e sensibile umanità, offrendoci coraggio, rispetto e franchezza. Per chi vive una storia di coppia questo libro è terapeutico, la ricetta è chiara: laddove c’è profonda intesa sessuale, vive l’istinto di fedeltà.
Datevi da fare! Nel caso non poteste, ci sono ottime spiagge lungo il Po dove pensare ad altro…

Lady Chatterley’s Lover, D.H. Lawrence, 1928
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Rigodon

The Black Tar Vomit.by ~boobookittyfuck @ deviantArt

The Black Tar Vomit.
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Stanotte ho parlato con Good Ol’Fabio della grande evasione che permette la lettura, allorché riflettere anche solo un istante sulle deludenti contingenze porterebbe all’idrofobia.
Seppellirsi sotto diversi strati geologici di piume d’oca, specie in queste sere glaciali, e aprire un buon libro alla luce di un’affezionata abat-jour, giova assai al lobo anteriore dell’ipofisi. Goduria!
Il continente che più spesso ospita le mie evasioni è quello americano. Vi ritorno come ad un vecchio borgo d’antenati. L’amico di stanotte ha convenuto con me che, per qualità e quantità, l’America dal 1850 al 1950 sia stata la più prolifica fucina di grandi scrittori.
Di fronte a questa armata di scandagliatori dell’animo umano, splendida e infallibile, l’Europa che faceva? La Pigra Signora non si è mai scomposta, non ha vissuto l’esplosione espressiva del Giovane Continente come una minaccia. Grandi autori si avvicendavano fra Germania, Inghilterra, Italia, Francia ecc. ecc., ma con la stessa lenta, ciclica, regolarità da oltre mille anni. In America, invece, boom!
Parlare di contesto culturale, nel caso della letteratura, non deve mai far trascurare un importante fattore: l’editoria. Fare l’editore in Europa, soprattutto nel periodo sopra citato, è mestiere delicato e certosino. I lettori del vecchio continente hanno uno stomaco delicatissimo, è da riconoscere la premura con la quale i grandi editori europei li hanno sempre nutriti. I lettori Americani non soffrono invece di dispepsie o ulcere gastriche: i loro problemi sono tutti mentali, nello specifico di natura morale, direi d’inflessione religiosa. Per questo, con le dovute precauzioni, introdurre un testo “rivoluzionario”, un autore “d’avanguardia”, è più semplice in Europa che in America. Da sempre. Questo spiega i grandi flussi migratori di testi e scrittori dal nuovo al vecchio continente, soprattutto nei primi vent’anni del ‘900.
Ma quando è l’Europa stessa a partorire un “mostro” (inteso come estrema sintesi di qualità scostate dalla norma), cosa succede? Proprio lei, che adotta quelli abbandonati in America, vorrebbe abortire quelli concepiti fra le sue genti.
Louis Ferdinand Auguste Destouches, meglio conosciuto con un nome mixato a quello di sua nonna (!), ossia Louis-Ferdinand Céline,  è il figlio deforme che l’Europa ha sigillato in cantina. Diciamo anche che lui non ha fatto niente per mostrarsi amabile…
Il testo che voglio introdurre, dopo tutta questa prolissi sbrodolata, è lapidario e perforante come una pallottola alla tempia. Rigodon.
L’intensità di questo romanzo ha sortito effetti devastanti sulla mente ipertrofica di  Céline; vi basti sapere che il giorno stesso in cui l’ha terminato il suo cervello è esploso e lui è morto. Era il 1 Luglio 1961. Il giorno dopo moriva Hemingway, tanto bastò ad eclissarlo definitivamente per molti anni…
Rigodon – dicevo – è un’iniezione di peperoncino nel mezzo del cuore. La sua lettura è una corsa sfrenata su una parete di roccia friabile che fronteggia lo strapiombo. Quante volte si cade! Eppure vi è una frenesia tale, un’angoscia così atletica, che ci si rialza senza lamentarsi (un po’ come quando nel film “The Blues Brothers” Belushi e Akroyd si beccano un missile nel loro appartamento e riaffiorando fra le macerie non battono ciglio e vanno “al lavoro”) e si prosegue a spron battuto.
La storia dipinge con le pennellate grezze di Edvard Munch la fuga di Céline durante i giorni dell’avanzata alleata in Francia, a seguito dello sbarco in Normandia. Il governo collaborazionista, il crollo del nazismo, Philippe Pétain. Céline scelse la parte perdente, e dovette rifugiarsi in Danimarca. Il viaggio per la salvezza è descritto in Rigodon come un guado dell’inferno, l’apocalisse dell’individuo, che disumanizza. Le comparse indifferenti e naufraghe di questo viaggio disperato, insieme alla moglie e al gatto, sono disertori, puttane, delinquenti, collaborazionisti, psicopatici, bambini abbandonati a loro stessi, animali fuggiti dalle stalle. C’è fango ovunque e ogni domani è una minaccia in più. Svanita ogni fiducia nel prossimo, solo ciò che si ha in mano può tornar utile, le parole non servono più. La violenza è cortesia, la rabbia è premura e l’odio è solidarietà.
La lingua di Céline è l’intraducibile argot francese, tipicità nazionale, non allargabile al nostro italiano costellato di dialetti; ma se trovate un edizione Einaudi, allora troverete un’ottima traduzione. Il francese è rapidissimo, è perfetto per scagliare in faccia al lettore i tranci del nichilismo dello scrittore, perfetto per scivolare nello strapiombo al suono di un risucchio. Nell’italiano questo si perde un po’, troppe polisillabe.
La crudeltà è indistinguibile dalla crudezza, Céline non prova alcuna pietà per i sofferenti, per i perduti, per i cadaveri affastellati per le strade. Perché l’umanità è un lusso da salotto buono, quando si è braccati da una condanna a morte e dal cielo piovono bombe. E’ una visione continua, quella che ci investe leggendo Rigodon. La punteggiatura è inequivocabile, non vedrete in nessun altro libro di Céline, nemmeno in Viaggio al termine della notte o Morte a credito (precedenti alla guerra) un tale dispiego di punti di sospensione, vera notazione della petite musique, rivoluzione stilistica senza precedenti. La sospensione corrisponde all’affanno e all’angoscia dello scrittore, è un continuo contrappunto simile al jazz più cerebrale. Céline era un cervello sopraffino deglutito e trattenuto in uno stomaco inacidito.
Rigodon è il traguardo estremo della paranoia dell’autore francese, nella corsa lontano dall’omologazione e dall’impegno sociale degli intellettuali. Se aveste nominato Sartre in presenza di Céline, vi avrebbe liberato addosso la muta di cani che teneva in casa proprio per simili occasioni. Con questo testo egli fugge definitivamente dalla comprensione dei contemporanei, condannandosi a un esilio ben più grave di quello scontato in Danimarca.
Chiunque legga Céline non può che rimanere affascinato dalla sua mente affilata e spregiudicata, non può che ammetterne la veemenza espressiva senza pari. Eppure, ancora oggi, in tanti, troppi, tacciono nei suoi riguardi, forse per il timore di apparir aldilà di ciò che è “buono” e “rispettoso”, “corretto”.
Persone come lui sono strumenti che servono ad allargare il campo delle percezioni e delle sensazioni umane, rendendo possibile a chiunque lo voglia di provare l’impensabile. Ma sono strumenti che durano poco, che si logorano subito e si frantumano. E spesso si è tentati di pensare che siano insostituibili.
Una fuga con stile, per serate in cui ci si sente sotto le bombe.

Rigodon, Louis-Ferdinand Céline, 1969
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L’urlo e il furore

The Nightby ~smallvillian @ deviantArt

The Night
by ~smallvillian @ deviantArt

Chi sentisse parlare di un certo William Faulkner non dovrebbe mai avvicinarvisi lungo i sentieri di questo romanzo. Si perderebbe. Io l’ho fatto, perché qualcuno mi aveva detto:”Fau? Leggi questo, è il suo miglior romanzo”.
Era evidente che dovevo stare molto antipatico a quel qualcuno.
Ci ho messo anni a terminarlo. L’ho iniziato e abbandonato almeno 5 o 6 volte. Ogni volta ci capivo sempre meno.
Quando si legge un romanzo si ricrea uno spazio, spesso coincidente con spazi da noi già visitati, magari ambienti della propria infanzia, che chissà perché andiamo a rispolverare proprio per queste occasioni. Leggendo questo testo non riuscivo ad “afferrare” nessun luogo ideale per ambientarlo. Continuava a vorticarmi nella testa, finché non ho avuto stampato, negli occhi della mente, altro che un arabesco. Le voci dei protagonisti saltavano da una voluta all’altra, si sovrapponevano e mi parlavano insieme, dicendo cose diverse. Per fortuna non leggevo in piedi.
Faulkner aveva una mente rapidissima e una pazienza colossale. Sembrano caratteristiche che mal s’accostano, niente affatto! Tesseva arazzi in cui non trovava riparo nemmeno un acaro, tanto erano fissi. Con la pazienza di un ragno egli costruiva una trappola per ogni, ripeto ogni, pensiero, anche il più sfuggente, il più  silenzioso.
Nel suo discorso di ricevimento del premio Nobel, nel ’49, Faulkner implora ogni uomo e ogni donna a non abbandonare ciò che, insieme alla voce inesauribile e all’anima, contraddistingue l’umanità: la compassione, il sacrificio e la resistenza.
Rivolgendosi direttamente agli scrittori di allora, critica la loro confusione: per lui essi scrivono non di amore ma di lussuria, di sconfitte in cui nessuno perde qualcosa di valore, di vittorie senza speranza, senza pietà o compassione. Per Faulkner, in quegli anni, si scriveva troppo di “ghiandole” e troppo poco di “cuore”.
In “L’urlo e il furore”, Faulkner presta fede alla sua missione e lo fa senza risparmiarsi, senza risparmiarci. Le vicende della famiglia Compson sembrano orchestrate secondo la dodecafonia di Arnold Schönberg, con una logica misteriosa ma affascinante, ipnotica. Si avvale di periodi millimetrati, in cui ogni lettera trova il suo incastro, come in un puzzle. La narrazione procede saltatoria, intersecata, con frequenze disturbate. C’è molto buio in questo romanzo, l’unica fioca luce presente non è solare, bensì lunare. Faulkner viene dipinto come scrittore barocco, eppure a me sembra solo uno scrittore “notturno”, che vede il mondo con grandi occhi sbarrati nel buio. Avreste mai immaginato di poter osservare questo mondo con gli occhi e la sensibilità di un bambino con disagi psichici? In questo romanzo proverete l’ansia e lo sgomento di un’anima intrappolata in  un mondo che non la comprende, contenuta in un corpo e una mente sfortunati ma assolutamente vitali e presenti nella stessa realtà della gente “normale”. Proverete emozioni crudeli e sincerità spiazzanti.
Vi perderete, questo è sicuro. Perché starete leggendo, non una rielaborazione mentale dell’autore tesa alla comunicazione, ma la comunicazione stessa fra l’autore e il proprio cosmo emotivo. Entrerete in Faulkner, nella sua mente. Joyce aveva fatto la stessa cosa, ma era irlandese, quindi risulta ancora più ostico, più analitico del sé. Lo scrittore americano si limita a ciò che viene molto bene agli scrittori americani: narrare.
Ogni volta che guardo “L’urlo e il furore” nei miei scaffali, penso immediatamente a quell’arabesco che mi ha fatto da prigione e riparo durante la lettura. Penso alle parole di Faulkner al ritiro del Nobel. Nella sua religiosa fiducia per la nobiltà dell’uomo affermò che la voce del poeta non dev’essere il semplice registro della vita di un uomo, ma può essere uno degli oggetti di scena, uno dei pilastri che può aiutarlo a resistere, e a prevalere. Su cosa? Cercate nel libro.

The Sound and the Fury, William Faulkner, 1929
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Aspetta primavera, Bandini

Wait until spring, Bandinichroniclovedisease

Wait until spring, Bandini
chroniclovedisease

Che l’amore di un ragazzino non abbia nulla da invidiare a quello di un Dante, di un Petrarca o di un Sandro Bondi, questo è noto. E’ meno noto che questo amore possa talora compiere passi ben più lunghi delle brevi gambe del suo ospite. Passi lunghi quasi un secolo. Arturo Bandini e il suo amore, un passo dopo l’altro, giungono ai nostri tempi ancora energici e testardi. E pensare che per decenni nessuno, in alcun luogo del pianeta, ha badato a questo piccolo figlio d’immigrati, che coi pugni chiusi fino a sentir male, restava in mezzo alla neve per ore, sperando di veder comparire la piccola Rosa dietro ai vetri della sua bella casa.
“Aspetta primavera, Bandini”, prima opera pubblicata di John Fante, raccoglie in sé l’intero talento di uno scrittore straordinario, che bisogna assolutamente leggere e consigliare.
Arturo, largamente autobiografico, è un ragazzino che ai nostri tempi rischierebbe di finir sotto psicofarmaci. La sua rabbia è commisurata solo alla sua frustrazione, e il suo odio è genuino solo quanto il suo amore. Testardo, complessato, invidioso, bugiardo, spaccone, ma anche timido, impaurito e sognatore. Troppo sognatore. Da qui i suoi guai. Non riesce proprio ad accettare di essere figlio di immigrati italiani (i cosiddetti Dago), che nell’America dei ’30 erano visti come oggi la società “civile” italiana vede coloro che provengono dall’Africa o dalle regioni balcaniche. Riflettiamoci.
Arturo soffre come un cane, anzi peggio, odiava le sue scarpe inadeguate ad ogni stagione, la bruttezza della propria abitazione e i modi sommessi di una madre succube di un folle e violento marito. Amava invece il padre, anche se a tratti lo odiava peggio di se stesso, ma che per la maggior parte del tempo rappresentava per lui uno che ce la metteva tutta. E che cornificava la madre con donne belle e ricche. La cosa più soddisfacente al mondo, quella di cui andar più fieri.
John Fante era uno scrittore completo, efficiente, dotato di sconfinato talento e infinita sfiga. Perché son serviti più o meno 50 anni affinché venisse preso in considerazione, proprio lui che sgomitava per un posto di rilievo (meritato) fra gli scrittori. Era un narratore puro sangue, capace di strutturare dialoghi in cui il lettore si trova, senza accorgersene, ora nella testa di un personaggio, ora nella testa di un altro. Tutto è naturale: ogni monologo, ogni descrizione, ogni cosa è giusta, pulita, divertente fino ad esser caustica. E’ un classico, ridere a crepapelle per l’irosa invettiva di Arturo, per poi smettere d’improvviso e rendersi conto che non c’era assolutamente niente da ridere. Questo libro è a tratti commuovente, struggente, permeato di una corrosiva delicatezza che sembra disgustarsi di quanto la vita possa esser grama. Si arriva ad esser amareggiati, tristi. Fante descrive una vita di privazioni materiali, ma di assolute abbondanze spirituali, straripanti, talvolta veri e propri tsunami emotivi, che non distruggono niente fuorché egli stesso.
A chi vorrebbe migliorare la propria vita, questo libro offre un’energia considerevole, ma anche un avvertimento: è dannatamente dura guadagnarsi un posto. Molto più facile in paradiso, che qui sulla terra…
La parabola di John Fante è, a mio avviso, spesso sovrapponibile a quella di Francis Scott Fitzgerald: entrambi affascinati dal mito della ricchezza e del successo, animati da un amore eviscerante per la vita, spaventati dal mondo fino ad illudersi di poterlo controllare attraverso la parola. Hanno fatto entrambi una brutta fine, ma fino a quel momento infausto direi che il primo è stato di gran lunga più sfigato del secondo. Una su tutte, il conto in banca. Ma in quanto a libri, chi può affermare senza esitazioni la supremazia di uno dei due sull’altro? Questo vi dia un’idea del calibro di John Fante. E’ giusto ricordarlo come un grandissimo scrittore, e far vivere i suoi libri dentro di noi.
Godiamoci la lotta di Arturo, contro maestre ottuse, genitori colpevoli d’esser italiani, compagni lecca-culo e bambine viziate. Arturo Bandini è un Huckleberry Finn incazzato nero, che non ha tempo per cazzeggiare lungo il Mississippi, un Bukowski imberbe che non toccherà mai un bicchiere. Il nostro ragazzino ha diversi scopi ben più importanti da perseguire, uno più utopico dell’altro.
Tifare per lui è cosa spontanea.

Wait until spring, Bandini, John Fante, 1938
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Sulla strada

1964, Millbrook, New York, USA --- Psychologist Timothy Leary and Neal Cassady in Bus --- Image by © Allen Ginsberg/CORBIS

1964, Millbrook, New York, USA — Psychologist Timothy Leary and Neal Cassady in Bus — Image by © Allen Ginsberg/CORBIS

Jean-Louis Kerouac era sostanzialmente uno sfigato.
Il classico ragazzo dal grande cuore, con una mamma eccessivamente invadente, amici strampalati e avulsi dal contesto sociale di riferimento e la più grande capacità di esprimere l’angoscia dell’esistenza fra tutti gli scrittori americani.
Neal Cassady (Dean Moriarty nel testo) saltava da un letto all’altro, donne e qualche volta, why not?, uomini; viaggiava avanti e indietro per l’America a tutta velocità, procurandosi automobili rubandole con assiduità e impunità; indossava una maglietta bianca meglio di Marlon Brando e non chiedeva che di bruciare e bruciare e bruciare…in un delirio di egocentrismo e infantilità illuminata. Jack lo ammirava, lo amava. Neal era scevro di quell’onnipresente senso di scollamento che impediva a Kerouac di lasciar perdere la scrittura e affogarsi nello scorrere del tempo. “Sulla strada” è un’opera magnifica, fin dal principio, prima ancora di esser scritta. Kerouac riteneva che la pagina condizionasse, con i limiti fisici del foglio, la stesura della narrazione: “Sulla strada” è stato scritto su un rotolo, simile a quelli per il fax, lungo oltre 35 metri. E’ più che una battuta credere che questo sia stato uno dei principali motivi per cui tutti gli editori cui Kerouac ha proposto il manoscritto l’abbiano rifiutato. Come si fa a leggere un foglio lungo 35 metri? Comunque sia, è stata decisiva la miopia degli editori, più che la loro pigrizia o la scarsa metratura dei loro uffici. Forse Jack non vi ha mai pensato, in quella decina d’anni successivi di pesante alcolismo, ingannevole salvezza dalla disperazione per quel manoscritto così lungamente rifiutato. Ma era troppo tardi. Gli anni della gioventù erano già stati strappati dal calendario della sua breve esistenza, saltando direttamente dalla primavera all’inverno.
Kerouac aveva il dono della comprensione totale, poteva guardare in faccia l’assurdità delle vite dei personaggi del suo romanzo con il coraggio del gregario, che già è rassegnato all’ombra. La forza di “Sulla strada” progredisce all’aumentare delle miglia divorate dalle ruote della compagnia selvaggia, più Neal accelera, più il romanzo ci investe con veemenza e trionfalità. Nessuno di loro sa cosa sta accadendo, ma tutti hanno la precisa sensazione che è qualcosa di grande, di follemente grande. Un’esaltata disperazione li relega alla strada, all’andare in qualsiasi posto, non importa dove. Importa solo, ovviamente, andare! La musica è co-autrice di questo dissennato progetto di vita e di narrazione. E’ disciolta in ogni sillaba. Kerouac & CO. erano divoratori di musica negra, in particolare erano fanatici di Charlie “The Bird” Parker.
Si può dire che senza Charlie Parker, e in generale il jazz, “Sulla strada” sarebbe stato un testo più simile al diario di bordo di un autista della compagnia Grey Hound, che al capolavoro che tutti possiamo adorare.
E’ difficile restare in auto con Neal, Sal, Carlo Marx e compagnia cantante, senza provare di tanto in tanto l’impulso di gettarsi in corsa e riposare all’ombra di qualche palma. Perché loro non hanno nessuna intenzione di fermarsi, né di giungere in alcun luogo.
Lo ripeterò ancora e spesso, ciò che si è definita come Beat Generation (5 o 6 persone in tutto) è stata una delle ultime convulsioni dell’animo umano, prima di spirare definitivamente e consegnare le proprie spoglie alla meccanizzazione (Carlo Marx, aka Allen Ginsberg, dixit).
Jack Kerouac ha compiuto la sua missione, a costo di ammettere la propria subordinazione al cospetto del calor bianco della vita umana, di cui è profondissimo sacerdote, ma che non si azzarda a impugnare con l’ingrata stolidezza di un protagonista qualsiasi. Ci ha dimostrato, paradossalmente , non la facilità di spostarsi (fisicamente e mentalmente) da se stessi e dal contesto, bensì la fermezza con la quale è possibile restare coraggiosamente nella propria vita. Niente male per uno sfigato!
Egli arde senza gridare, addirittura trascrivendo le vampate che lo dilaniano su carta Telex. Nessuno dei suoi amici, diranno loro stessi, s’era mai accorto di quanta sofferenza albergasse in quel ragazzo di seconda fila, un po’ timido, un po’ spaccone.
Mentre si legge “Sulla strada” il cuore aumenta i battiti e la stanza in cui siamo diviene automaticamente una gabbia asfissiante. O lo si legge senza sosta (sconsigliabile) o, fra una pausa e un’altra, si sta fuori di casa. Lontano da una sedia che non sia il sedile di un auto, o da un divano che non sia quello posteriore di una Cadillac. Quindi meglio leggerlo d’estate. Magari indossando una T-shirt bianca, come una tela ancora da finire…

On the road, Jack Kerouac, 1951
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Moby Dick; o, la Balena

The Whiteness Of The Whale
Artist: Samantha Sweeting

Affrontare Moby Dick in prima persona potrebbe esser più semplice che affrontare il testo di Melville. Dovreste spegnere il pc, il cellulare, fare scorte di viveri, affiggere alla porta di casa un cartello che rechi la scritta “sto leggendo Moby Dick, infilate il messaggio sotto l’uscio, vi farò sapere…”, ed infine sigillare porte e finestre. Potrebbe davvero esser più semplice imbarcarsi su qualche baleniera e tentare di ramponare da sé il capodoglio candeggiato. Ma la colpa è squisitamente nostra, o se vogliamo sentirci meglio, del mondo intorno a noi.
Il tempo Melvilliano è una base per la pizza che si può tirare all’infinito, alla faccia dei fisici contemporanei e dei pizzaioli d’ogni epoca. Questo signore, che nel celebre ritratto di Joseph O. Eaton sembra un diciottenne con la barba di un settantenne che non ha mai visto un rasoio, doveva esser evitato dai suoi compaesani alla stregua di un appestato. Immaginate di chiedergli “Ciao Herman, come va?”. Non ve la cavereste prima di sei o sette ore. Il nostro caro aveva a disposizione tutto il tempo di cui disponeva l’umanità a metà del XIX secolo. L’America di allora viveva l’esaurirsi dell’onda lunga della colonizzazione del Lontano Ovest; la questione dei bufali e degli indiani era quasi sistemata, le città si ingrassavano, ma l’acqua era ancora buona e Mark Twain faceva avventurare i propri personaggi in un paesaggio resistente, senza la preoccupazione che s’ammalassero per l’inquinamento o piombassero dentro un pozzo petrolifero.
La condizione umana trovava ancora confronto con la natura, con le vastità terrene, acquee e siderali; l’uomo aveva ancora abbastanza spazio attorno a sé per allargare le braccia e con esse cingere il presente, misurandolo con gli strumenti calibrati su tutta la precedente vicenda umana. Melville è salpato appena in tempo: qualche decade dopo e l’uomo avrebbe perso ogni riferimento, ogni contatto con la temporalità e lo spazio, ritrovandosi perso in sé stesso; la stragrande produzione letteraria venuta dopo il XIX secolo è vincolata all’ego dell’artista, i romanzi si svolgono in mondi stretti stretti nella sua calotta cranica. Addio grandi distanze americane, così concrete e tangibili.
E’ ormai banale accostare il testo di Moby Dick alla bibbia, ma lecito. Il divino che Melville, di provenienza cristiana, discioglie attraverso tutta la narrazione, è più simile a un fenomeno ebraico. E’ un’entità terribile, come ce lo aspetteremmo da un romantico europeo dei primi trent’anni dell’ottocento. Ma non lo troveremmo fra le nubi, accovacciato a far la punta ai fulmini; non lo incontreremmo fra i nostri consimili, come un Cristo, sulla terra ferma. Ci troverebbe lui, emergendo dagli abissi oceanici. Tiè!
Allo stesso tempo questo ignaro e innocente capodoglio è ammantato di un alone estremamente umano, incarnando tutte le nostre miserie: crudeltà, rabbia, voracità, odio e altre carinerie (e guarda caso è bianco…).
Il trattato di cetologia, così come l’accuratissima descrizione di tecnicismi nautici e l’anatomia animale comparata, sono parti del testo che è necessario “soffrire”, per sentirsi parte integrante dell’equipaggio della baleniera “Pequod”, cullata per mesi e mesi fra le onde degli oceani. In questo contesto di eterna attesa e continua riflessione (i monologhi simil-shakespeariani sono incantevoli e iper-teatrali, anche se difficilmente udibili su una baleniera reale), vi sembrerà che dal vostro divano, dal vostro letto, o dal vostro WC, sia possibile scorgere all’improvviso lo spruzzo d’acqua di un cetaceo all’orizzonte. E molto presto anche voi spererete che non sia Moby Dick. Non vorreste mai che fosse proprio “quel” capodoglio.
Un tizio come il capitano Achab potrebbe farvi passare ogni remora morale e scatenare il cacciatore di balene che è in voi, sgombrandovi con uno schiocco di dita la mente dai documentari di Piero Angela e dai gommoni di GreenPeace. Uno così è più che magnetico. Eppure voi non vorreste mai – ripeto – incontrare Moby Dick, perché quel vecchio capitano è davvero intenzionato a rovinare quella fantastica crociera nei mari orientali, con la stiva piena di olio di balena e il porto di casa già in mente, per andare a saldare il conto con la balena bianca. Ad ogni costo.
Quando Melville trasale, abbandonando le comparazione fra la mandibola della balena franca e di altri cetacei, e portandovi con sé sulle lance del “Pequod”, l’adrenalina vi sconquassa, l’oceano vi sembra l’unico posto per voi, gli occhi vi si annebbiano di rosso per la frenesia predatoria. E mentre remate a tutto spiano, sotto le straparlate degli ufficiali Starbuck, Stubb o Flask, ripassate mentalmente dove affondare il rampone: Melville vi ha insegnato alla perfezione dove sta il cuore di una balena. Melville vi costruisce un senso apposito per il proprio testo. Vi pare poco?
Ai lettori italiani Cesare Pavese (e chi altri poteva?) ha consegnato una traduzione faticosa. La struttura delle frasi dello scrittore americano è sovente intricata, da letterato puro e duro. Facile perdere l’appiglio e scivolare fino al punto finale del paragrafo, senza averci capito assolutamente niente. Pavese ha dovuto confrontarsi anche con gerghi da baleniera e freddure anglosassoni intraducibili. Il risultato è dunque ottimo, e c’è da ringraziare il professore piemontese per lo sforzo encomiabile. Gli appassionati di lingua inglese troveranno squisite diverse trasposizioni linguistiche, operate con maestria dal traduttore (come “vulturismo”, a descrivere l’atteggiamento opportunista dell’uomo, dall’inglese “vulture” ossia “avvoltoio”).
Leggete Moby Dick, non perché qualcuno vi ha detto che la letteratura americana parte più o meno da lì, ma perché lì giungono sia il nucleo che le propaggini dell’animo umano, e intrecciano i loro destini con il Leviatano, con dio, con la Natura ancestrale di ogni cosa, con la vita.
Questo testo è destinato a sparire e ricomparire nella storia della letteratura, che poi è la storia dell’uomo; si immergerà nelle oscurità del tempo, per riemergere con impeto più in là, sempre un po’ più avanti di noi. Ci spronerà a non perderlo mai di vista, a non perderci mai di vista. Cosa vi ricorda, ramponieri?

Moby-Dick; or, The Whale, Herman Melville, 1851
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